Imminente la 47ma edizione di Vinitaly.
Mi torna alla mente il 1996, anno in cui cadeva il 30mo. L’ente fiera realizzò uno speciale del proprio house organ, all’interno del quale anche intervista a Luigi Veronelli.
Mi piace riproporla sia per le parole d’affezione, anche laddove sferza, sia perchè vi si trovano spunti, a mio avviso utili ancor oggi, su cos’è (può essere) una manifestazione fieristica.
Vi leggo anche i sintomi dell’esigenza – che ha trovato applicazione di lì a qualche tempo – di “fuori fiera” vari (in Verona e non solo) ben visti da una parte di produttori.
Gian Arturo Rota
D. Qual è la prima volta che è andato a Vinitaly?
R. Sono amante, come Guido Gozzano, degli anacronismi e dei paradossi.
Non sono quindi andato una prima volta a Vinitaly, da che è sempre stato la prosecuzione dei miei viaggi tra le vigne – si: infaticabili – ed iniziati dieci anni prima, 1956.
D. Che differenza riscontra rispetto alla realtà attuale?
R. Assai minori, le differenze, di quanto possa sembrare.
E’ sempre un cocktail preparato con troppi ingredienti: alcuni di eccezionale qualità; ahinoi, alcuni pessimi.
Ed un cocktail, così come una catena, non è mai più forte del suo anello più debole.
Va bene a uno come me – meglio, a uno come noi – in grado di far selezioni, godere l’eccellenza ed ignorare, con qualche disgusto e disdegno, l’orrido.
D. Che importanza ha avuto Vinitaly nell’evoluzione del vino in questi trent’anni?
R. In una Patria (non mi stancherò mai di ripeterlo: la patria è ciò che si conosce e si capisce) che in possesso di pochi e piuttosto squallidi padroni del vapore ignorava il mercato dei vini, ha agito come catalizzatore di una buona catalisi.
D. Considerato che il mercato del vino si va internazionalizzando, quali esigenze si pongono a produttori, consorzi, enti, istituzioni al fine di garantire una adeguata presenza del vino italiano nel mondo?
R. Esigenza prima è di distruggere le assurde mura di abbandono, indifferenza e ignoranza che sono state costruite attorno la nostra agricoltura e quindi anche ai vini.
Se lo stato avesse profuso nelle attività che concernono – ineguagliabili in ogni altra terra del mondo – la bellezza, la cultura, l’archeologia, l’agricoltura e il turismo; se lo Stato vi avesse profuso la metà della metà della metà di quanto ha gettato nelle industrie, l’Italia e il suo popolo sarebbero ai vertici della prosperità e del benessere.
D. Quali suggerimenti darebbe a Vinitaly per garantirsi altri trent’anni di sviluppo e di successi?
R. Invitato alla trasmissione “Il laureato bis” di Piero Chiambretti, ho tenuto una lezioncina agli universitari milanesi (Statale, Bocconi, Cattolica, Politecnico, Iulm).
Mi avevano preavvertito: avrei trovato una platea ostile dovendosi ipotizzare, tra di loro, molti bevitori di coca-cola.
Sono bastate poche parole – e non perché io sia bravo – e tutta la platea era con me, meglio, con il vino.
Questo vorrei che i produttori credibili ottenessero, anche attraverso il Vinitaly, dai mass media: dibattiti e parole chiare. I giovani, più colti di noi per ragioni millanta, ti ascoltano ed intervengono.
Contro ogni statistica padronale, rifiutano le industrie. Hanno un immenso desiderio di ritorno alla civiltà contadina (la nuova, ben chiaro: la nuova che rifiuta le miserie e le umiliazioni del passato).
Siano allora i Vinitaly del futuro ad essere catalizzatori di questo nuovo, emozionante fenomeno, di coinvolgimento dei giovani.