Con Carta, settimanale, Veronelli ha collaborato dal 2002 al 2004.
Titolo delle rubrica: Le parole della terra strutturata a due voci, quelle di Veronelli e di Pablo Echaurren, in una sorta di botta e risposta sui problemi dell’agricoltura, dall’impronta fortemente polemica.
Pablo, perché noi trascuriamo l’agricoltura?
Carlo Piscane, duca di San Giovanni (Napoli 1818 – Sapri 1857). Duca, poi ufficiale soldato (anche nella Legione Straniera), poi capo di stato maggiore della Repubblica Romana (con Mazzini, 1849). Sceglie la contrapposizione natura/società, ne scrive. Dirotta il postale Cagliari su Ponza, libera 300 refrattari e sbarca a Sapri. E’ convinto che le “masse” contadine insorgano, con lui, contro i Borboni. Rimangono in 300, giovani e forti; accerchiati in località Sanza, lui ama la libertà e si uccide, con un colpo di fucile, prima della cattura. Facile giudicare oggi l’errore di quella spedizione, sostenuta da Mazzini: essere la violenza, soprattutto, l’origine dei (nostri) mali.
Ma ancor più facile, 150 anni dopo, ragionare sulle pagine dei suoi “Saggi storici-politici-militari sull’Italia” (pubblicati postumi nel 1858) e convenire con lui: i contadini sono gli unici possibili protagonisti della rivoluzione.
Contadino, nato a sostenere la fatica.
Dura tutto l’anno tanta pena a lavorare d’inverno, d’estate, tanti sudori, tanti caldi, tanti freddi. Faticante sinonimo di contadino. La fatica è la sua misura quotidiana. Scrisse bene, Nuto Revelli, anni ‘50: «Le leggi sono state fatte contro i protagonisti; è il controllo delle masse contadine la grande risorsa della restaurazione».
Il rispetto di sé e degli altri, l’impegno costante, la pazienza – dei contadini, dico – hanno radici millenarie.
Penso che possano essere “usati” con una continua, aspra, lotta all’interno delle istituzioni. Con questi concetti e nel pr eciso ricordo delle parole di Brunetto Latini – scrittore italiano del ‘200, definito da Dante maestro – «Tre sole autorità meritano rispetto: la madre, il padre e il comune», ho promosso, con l’accordo dell’associazione nazionale dei Comuni d’Italia, una legge di iniziativa popolare proprio sulle denominazioni comunali.
Le 50.000 firme necessarie non sono state raggiunte per il pressoché totale disinteresse – poi – delle autorità.
I sindaci – visti come amministratori e non come politici – avrebbero potuto controllare e garantire ciascun prodotto dell’agricoltura e della manifattura alimentare nell’ambito territoriale del proprio Comune.
Grazie – guarda un po’ – alle possibilità globali (Internet) la loro vendita sarebbe avvenuta attraverso un’agenzia non privata, bensì comunale.
Approvata la legge, non passano 20 (venti) anni e i supermercati delle multinazionali, da noi, chiudono.
Perché, Pablo, trascuriamo l’agricoltura? I centri sociali, da me sollecitati – sollecitati forte – hanno disdegnato di occuparsene.
L.V.
Capisco cosa vuoi dire, contadini, campesini, la dignità della comunità, il rifiuto dell’urbano disumano che tutto appiattisce, avvilisce, imbastardisce, che strappa le radici per renderci mobili, intercambiabili come automi, telecomandati.
Lavorare, faticare, sudare, si, ma per dare voce a un proprio sapere profondo, antico, territoriale, non per servire un potere centrale, industriale. Imitare la patata che germoglia in ogni parte del suo corpo, che sfugge a una concezione verticale, verticalista, ma funziona in orizzontale, quasi un frattale vegetale.
Coltivare invece che cacciare, agricoltori e non predatori. Più fourieristi utopisti che marxisti ortodossi.
Il piacere al posto del dovere sarebbe il programma massimo, ma possiamo cercare di realizzare quello minimo, ovvero il piacere nel dovere.
Seminagioni, raccolti, feste libagioni, accompagnano da sempre il lavoro amoroso di chi condida nella terra, di chi segue le fasi lunari, non quelle aziendali. Meglio un giorno da squacquerone che cento da galbanino!
Sono d’accordo, ti seguo, ma io vado avanti a rampazzo, alla cieca, mentre tu puoi dare un significato a queste mie parole in libertà.
P.E.
Grazie, Pablo!
I contadini possono essere i primi protagonisti della rivoluzione. Agli operai basta ottenere un salario che stimino giusto, ai contadini no, da che sono coinvolti in modo diretto, consustanziale a ciò che producono.
Dico sia di quelli che hanno ancora la loro terra e la coltivano, sia di quelli – la stragrande maggioranza – che non l’hanno e coltivano le terre altrui. Nati a sostenere la fatica.
Ripeto: Nuto Revelli, anni ‘50: «Le leggi sono state fatte contro i protagonisti; è il controllo delle masse contadine la grande risorsa della restaurazione».
In Italia, le autorità si sono spinte ad esagerare i tentativi – proprio – della restaurazione.
Solo i vignaioli, grazie ad alcune “battaglie”, hanno raggiunto il benessere, gli altri, quelli che hanno la loro terra, nella misura sufficiente alle necessità familiari, riescono appena appena a far quadrare i conti.
Quelli che non l’hanno, la terra, sono in condizione avvilente (i nostri giovani neppure pensano di dedicarsi all’agricoltura; ad occuparsene siano i disperati che fuggono da altre terre).
Ti faccio, Pablo, un solo esempio dell’infamia legislativa “nostra”: i contadini sono costretti a cedere le vinacce – si dice vinaccia il residuo della torchiatura delle uve fresche – alle distillerie: 120 in Italia.
Da un’intervista di Marc Tibaldi, pubblicata su E.V., ad uno dei distillatori “nuovi” di eccellenza, Gianni Capovilla di Rosà, so che nella vicina Austria, 60.000 vignaioli distillano, in proprio, le loro vinacce.
Hanno, così, la possibilità di rendere più consistente il loro benessere e di occupare la manovalanza per le operazioni relative con un aumento – ahinoi, più limitato – anche della loro agiatezza.
I residui di vinificazione sono una massa enorme, corrispondono al circa 15% dei 60 milioni di quintali di vino prodotto in Italia. Questo fa capire la mostruosa dimensione di molte delle 120 distillerie.
Le vinacce vengono infilate in enormi vasconi di cemento. In primavera raggiungono un tenore in alcol metilico 3-4 volte superiore a una vinaccia appena svinata e il distillato che ne esce deve essere rettificato in alte colonne di demetilizzazione per essere idoneo al consumo.
Da noi si rettifica; si perdono le cose buone, aromi e fragranze varietali.
Siamo nella comunità europea. Gli indefinibili responsabili del nostro Ministero delle Politiche Agricole nulla hanno fatto perché i contadini italiani fossero messi nelle stesse condizioni degli austriaci.
Nei fatti, ogni uomo, in ogni parte del mondo, con leggi giuste, potrebbe vivere con il lavoro della propria terra. Nella nostra patria – la patria è ciò che si conosce e si capisce – i contadini, sia piccoli proprietari, sia braccianti, potrebbero essere, per il favore del terreno e del clima, addirittura dei privilegiati.
Ti faccio un esempio clamoroso.
Se il sindaco di Capua fosse onesto e capace, darebbe la denominazione comunale – nei fatti, la garanzia che ciascuno dei prodotti della sua terra è davvero della sua terra – ai giacimenti gastronomici: le carcioffole (carciofi, detti anche capuanelle), gli asparagi, le melanzane, i peperoni, i finocchi, i broccoli di rapa maggiaiuoli, il cavolfiore, i cetrioli, i fichi, il cocomero, i “capuanelli da pane” (meloni), la mozzarella, il caciocavallo, le formaggette di latte di capra o di pecora, il sanguinaccio aromatizzato, la salsiccia di polmone, il torrone, il sanguinaccio dolce, i mustacciuoli, gli struffoli, la pastiera.
Ciascuno dei prodotti citati, offerto via Internet da un’agenzia comunale con il valore aggiunto del nome del paese “di Capua” porterebbe all’agiatezza gli abitanti ed, in particolare, i contadini e gli artigiani.
Nei fatti, quella città, splendida per bellezza e per storia, è oggi oppressa dalla camorra.
L.V.