Nel 1998 il mensile giapponese Brutus (si occupa di lifestyle, cucina e moda) intervista Veronelli sul Chianti Classico, vino sensibilmente presente su quel mercato e, insieme al Barolo, il più diffuso e conosciuto dai consumatori del Sol Levante.
La giornalista Nozomi Tohyama, sottopone Veronelli a domande serrate, per favorire nei lettori una conoscenza quanto più ampia e precisa, del prodotto di punta della vasta zona di produzione. (Gian Arturo Rota).
D. I produttori migliori di Chianti Classico fanno anche i migliori vini da tavola, vuol dire che hanno la tecnica migliore di vinificazione?
R. Non posso che rispondere si. E’ evidente che la vocazione delle loro vigne è sottolineata verso caratteristiche enologiche di reale qualità.
D. Dopo la riforma della legge nel 1996, il Chianti Classico si produce con uve sangiovese da 80% a 100%.
Prima di questa riforma esisteva anche vino da tavola sangiovese 100%, che è diventato difficile da collocare.
Che ne pensa?
R. Ho l’orgoglio di essere stato il primo – di gran lunga il primo – a reclamare l’eliminazione delle uve bianche dalla “formula” del Chianti Classico (ed anche degli altri Chianti).
La possibilità data ai vignaioli di utilizzare la sola uva sangiovese – ed anche ciò era stato da me reclamato – è del tutto lodevole. Sul mercato italiano non si sono verificate, nei fatti, difficoltà per la collocazione di Chianti Classico a sola base di uva sangiovese e dei paralleli vini da tavola, prodotti con la sola uva sangiovese.
D. Che ne pensa dell’invecchiamento del Chianti Classico in barrique?
R. Ciascun vignaiolo che sia veramente grande, deve sapere scegliere, per i vini della propria produzione, la migliore elevazione, in legni piccoli o medi. Sarà poi il mercato a stabilire se la sua scelta è la migliore.
D. In Toscana, ci sono alcuni enologi importanti, per esempio Vittorio Fiore, o Carlo Ferrini, che fanno i consulenti di varie cantine. Hanno una grande influenza su di esse?
R. Certo, credo che un enologo di grande valore influenzi il vino cui dedica le proprie cure (così da far dire, ad esempio: “sente la mano di Vittorio Fiore”). C’è tuttavia da notare che un enologo è davvero grande quando accompagna le virtù date alle uve dalla singola terra, senza sovrapporsi e deviarle.
D. Si registrano “avventure” (sperimentazioni, n.d.r.) con uve straniere come cabernet (per il Sassicaia), merlot (per il Masseto), syrah (per L’Eremo). Secondo lei quanto possono durare?
R. Si tratta di una “avventura” benedetta. E’ la terra a dare al vitigno la sua reale importanza, così da far nascere un Sassicaia, che è si un cabernet sauvignon, che comunica ad un bevitore attento la sua qualità di cabernet sauvignon, ma che è diverso da tutti gli altri cabernet sauvignon di ogni parte del mondo.
Io amo affermare che un vitigno è sempre apolide e assume la sua nazionalità – meglio: la sua denominazione – dalla terra in cui è impiantato.
Del resto è certo – ed è la storia a certificarlo, oggi con la certezza dell’esame del DNA – che i vitigni della cosiddetta classicità, prima del loro passaggio in Francia (i cabernet, i merlot, gli chardonnay, i syrah, ecc.), hanno avuto come base ampelografica – durante non meno di sette secoli (a cavallo della nascita di Gesù Cristo) – nel sud d’Italia; per l’esattezza in Puglia, in Sicilia e nell’isola di Ischia.
D. La categoria dei cosiddetti Super Tuscan (vini da tavola) si sta parificando con la categoria dei vini a Doc.
Come vede questa tendenza?
R. La domanda non è molto chiara.
Io prediligo che i vini siano chiamati, in primis, con il nome dell’esatta località in cui hanno nascita, e solo poi, con l’indicazione della Doc o Docg.
D. I Chianti “con la paglia” (la giornalista intende la paglia intorno alle bottiglie, n.d.r.), come ai vecchi tempi, sopravviveranno secondo lei?
R. Credo che ciascun vino ben fatto, anche con mezzi “antichi”, come il Chianti “della paglia”, avrà una sua propria sopravvivenza, in quanto richiesto da un mercato, sia pure di nicchia.
D. Che cosa sono Chianti o Chianti Classico per gli amatori, espressione di cultura o semplicemente un alimento?
R. Già nel 1400 il Savonarola – Girolamo Savonarola, eccelso predicatore e scrittore, impiccato e bruciat (non per ragioni enologiche, bensì come eretico) – ammuniva di non confondere i vini prodotti nella regione classica del Chianti, da quelli dei luoghi attorno.
I Chianti Classico hanno in sè un equilibrio e un’eleganza quasi sempre assenti negli altri vini che utilizzano – a mio parere del tutto contro il buon senso – la denominazione Chianti.
Direi che il Chianti Classico sia quasi sempre piacere, gli altri cosiddetti Chianti, quasi sempre, solo alimento.
D. Quale di questi tre le piace di più? a, il Chianti Classico sangiovese 100%; b, il Chianti Classico con uve straniere (cabernet); c, Chianti Classico con la presenza anche di uve bianche.
R. Fuor di dubbio il Chianti Classico a base di sola uva sangiovese (e meglio se del cultivar sangioveto, ad acini più piccoli e sparsi). Anche se qualche volta l’aggiunta di piccole quantità di canaiolo – altra uva rossa autoctona – dà un aumento delle sensazioni tattili e gustative.
Mai, assolutamente mai, accetto la profanazione di uve bianche, per loro natura “fragili”.
D. Il Chianti Classico DOCG si è staccato dal Chianti DOCG. Che ne pensa?
R. Non posso che confermare quanto ho sopra dichiarato. A mio parere (come per il Savonarola), dovrebbe esistere un solo Chianti, quello Classico.
D. Che ne pensa della coltivazione del sangiovese nel “nuovo mondo”, ad esempio in California?
Se ha già assaggiato vini, come li ha trovati?
R. Ho fatto diversi assaggi di vini – californiani, cileni e sudafricani – a base di usa sangiovese e non li ho trovati tutti convincenti. Penso tuttavia che siano tentativi più che legittimi: l’uva sangiovese potrà dare vini eccelsi, in altri luoghi del mondo. Si tratta solo di individuarli.
Non se ne otterrano Chianti Classico, bensì vini rossi importanti che avranno il loro pregio, più che dalla “memoria” del celeberrimo vino, dalla terra “vocata”.