Il Sommlier italiano è la rivista dell’Associazione Italiana Sommelier.
Veronelli vi ha scritto più volte e l’ha diretta dal 1991 al 1992.
Quando un vino è grande
Invito alla discussione
(pubblicato giugno 1991)
Vivrei in costante stato di gioia, sicuro di leggere nell’aldilà i miei necrologi, se credessi nell’immortalità dell’anima. Non ci credo… e ne scrivono, su me vivo, d’ogni fatta. Tutto sommato non mi preoccupo più di tanto.
Vogliono “asseccà ‘o mare cu ‘a ciuttulella” (asciugare il mare con una ciottolina)? Ci si dedichino. Io continuo a fare, con infinita pazienza, ed ironia, quello ch’ho sempre fatto. Opero per il ben vivere d’oggi, il che significa, se solo un poco ci pensi, rendersi garanti del futuro.
Quanto ai vini considero di avere avuto un solo maestro: Andrè Tchelistcheff. Rileggo uno dei suoi dettati: essere i grandi vini “il risultato di una equazione che coniuga e contempla ad un tempo eleganza, equilibrio, morbideza, consistenza, complessità, possibilità di pronta beva e capacità di lungo invecchiamento” ed affermo: non è mai stata scritta, e meglio non si può, una definizione altrettanto valida.
E tuttavia non si tratta di un dogma. Ciascuno di noi conosce grandi vini che non sono, o non possono essere considerati, “di pronta beva” – basti pensare al Brunello di Montalcino – così come ciascuno di noi sa di grandi vini che non sono “capaci di lungo invecchiamento” (qui di proposito, non do alcuna esemplificazione). Anche se, debbo dire, su quel “pronta beva” tchelistcheffiano ci ho molto pensato, tanto da essere sicuro che il traduttore si è sbagliato: nel testo inglese, ch’io non ho, c’è scritto “possibilità di riconoscimento sin dalla prima beva” e non “possibilità di pronta beva”.
Un grande vino l’intenditore lo riconosce sin dalla svinatura; e durante la fermentazione, più o meno breve, e/o l’elevazione certo lunga, in carati; e alla messa in bottiglia; e durante i mesi della “ricomposizione” nel vetro. Diverso ogni volta, sempre in crescendo sino ad essere “grande”, lo riconosci tale “in potenza” lungo tutto il suo divenire.
Luca Maroni, sul numero 2 di Ex Vinis, il primo newsletter italiano indipendente, di cui sono anche editore e direttore, prende in esame la tematica dei grandi cru e si propone di eliminare “il vincolante difetto dei nostri rossi” identificato nell’eccessiva acidità e nel contemporaneo eccessivo gusto amaro ed astringente.
Posto il problema, Luca si “appella” ai wine-maker, siano essi tecnici siano produttori e azzarda delle soluzioni. Su queste ultime – del tutto sprovveduto quanto all’enotecnica – non posso intervenire. Mi sembra invece di dover partecipare all’esame: 1, della validità – per chiarirla, per approfondirla – delle definizioni: “convessi” per i grandi vini e “concavi” per quelli no (credo di poter consentire, tenuto conto dell’idea di apertura, implicita sulla convessità, e malgrado il ricordo, senza rimpianti peraltro, degli scritti – anni cinquanta, maledetto me – sulla coincidenza delle nozioni di concavo e convesso in “Idee per una fenomenologia pura” di Edmund Husserl); 2, dei concetti – ancora e va da sé: applicati al vino – del sostantivo amaro, ch’è sempre negativo, e del sostantivo amaritudine ch’è, quasi sempre, positivo, e addirittura, per alcuni vini – in primis, come vuole il nome per gli Amarone della Valpolicella – “tipicizzante” (l’amaritudine è proprio i piacevole convergere del sapore dolce e di quello amaro).
Sono esami, chiarimenti, approfondimenti di non poco conto…
Anch’io mi consento un azzardo: il carato c’entra nella definizione dei grandi vini, rossi e no (apro una parentesi: fu proprio alla presenza di Andrè Tchelistcheff, Firenze, 1983, ch’io proposi a Piero Antinori, e lui subito accettò, di chiamare il piccolo fusto di legno, dai 200 ai 250 litri – detto dai francesi barrique, nel Bordolese, e pièce, in Borgogna – carato. Perché? Per le solleticanti ambiguità auree della parola e per essere l’abbreviazione maggiorativa e migliorativa di caratello, toscano, e di caratèl, veneto-friulano). Cos’è il carato? Un semplice barile di legno (quasi sempre rovere, o castagno) a misura delle braccia di uomo, utilizzato in Italia, da due millenni, per la conservazione e il trasporto dei vini e, agli inizi del secolo, abbandonato (ma sarebbe più giusto scrivere: fatto abbandonare) per contenitori sempre più grandi di cemento, vetro-resina e acciaio. Si tratta cioè di un mezzo – come la zappa, o la cesoia, o i graticci, o la gabbia, o un filtro, o che altro (chi gli lottasse contro farebbe una magra figura) – da utilizzare “quando conviene”. Proprio su ciò si potrà allora discutere: “quando conviene” (utilizzarlo) e “quando non conviene”.
Affermo con tranquilla sicurezza: conviene, anzi: è necessario, per i vini che assumono valore dalla complessità e dalla completezza; non conviene, anzi: è nocivo, quando si voglia privilegiare, nei vini, la facilità. In numerose zone d’Italia, per eccellenza di terra e di esposizioni e di clima, il buon vignaiolo, ossia il vignaiolo intelligente e capace, può ottenere dalla stessa e medesima vigna – pur che adatta quanto a tipi d’uva, e coltivata nei modi specifici e opportuni secondo l’uno o l’altro proposito – un vino di grande impegno con l’uso del carato, o un vino, sempre al meglio, di appassionante disponibilità, senza.
Ripeto – perché sia ben chiaro, finalmente: perché non si facciano più confusioni, perché si abbandonino polemiche stupide e sterili – è possibile ottenere dalla stessa medesima vigna di buona vocazione vini seri, o addirittura grandi, sia con l’utilizzo del carato sia senza. Sta solo al buon vignaiolo deciderlo – l’uso o il non uso – tenuto calcolo: a, della qualità del terreno, della positura e del clima; b, dei vitigni di cui dispone (conclamate esperienze dimostrano che alcune uve – ad esempio quelle del riesling renano – si rifiutano sia alla vinificazione che all’elevazione in legno); c, della propria individuale predilezione. Nulla, in teoria e in pratica – già vi sono esempi – vieterebbe al buon vignaiolo di produrre i due vini.
Se io fossi un vignaiolo, e avessi la vigna vocata ed i vitigni giusti – cito il sangiovese, il nebbiolo, il barbera, il cabernet sauvignon, lo chardonnay, l’albana, l’aglianico, ma potrei a lungo continuare – utilizzerei il carato. Per la più semplice delle ragioni: amo i vini complessi, dialettici, “con cui discutere” e solo questi – io, personalmente, quanto a me dico – riconosco grandi.
Anche se il mercato sempre più si orienta nel mio senso, mi guardo ben bene dall’auspicare l’abbandono dei vini facili, e quindi a minor prezzo, per i quali eravamo conosciuti. Perché mai perdere il privilegio di poter essere sul mercato col nostro ventaglio di vini, già larghissimo, raddoppiato?
Mi rileggo e non sono affatto tranquillo; temo di non essere stato sufficientemente chiaro; di non avere fatto capire bene che non voglio, qui, fare riferimento a me; che vorrei portare avanti il discorso dei grandi vini in assoluto.
Negli ultimi giorni di 2 anni fa, 1989, ho portato a termine gli assaggi di tutta una serie di vini bianchi, friulani (di Mario Schiopetto, soprattutto) ed altoatesini (di Giorgio Grai e della Cantina Sociale di Terlano), degli anni 60, 70 e primi 80. Avrebbero potuto, anzi, per la maggior parte, avrebbero dovuto essere “cadaveri eccellenti”. Erano, quasi tutti!, grandi vini. L’età, anziché “sfarli”, li aveva resi complessi, consistenti e dialettici; ed è certo che furono prodotti senza l’uso del legno. Perché quei vini che, per la loro “storia” avevo giudicato, che gli stessi produttori avevano giudicato capaci di vivere al vertice uno, due, pochi anni, si sono fatti complessi, consistenti, dialettici, e quindi grandi? E come rendere costante il “fenomeno”?
Più un vino si fa autorevole e grande, minori sono, nel passare degli anni, le reali varianti nella sua possibilità di descrizione; i fondamentali, quando non restano intatti, mutano di poco, per nuovi acquisizioni prima, e poi, con l’aumento degli anni e l’inizio della parabola discendente, per minimi e sempre armonici cedimenti. Questa virtù, solo dei grandi vini, è bene espressa nel termine “riconoscimento”.
Un grande vino – non dico solo dei rossi, bensì anche dei bianchi – non ha mai cadute improvvise; se le ha, sono dovute al sorgere di ben individuabili malattie. Perché allora abbiamo visto e vediamo tutt’una serie di vini sino all’altro ieri considerati fragili, quali gli esempi già fatti (cui potrei aggiungere i Soave di Leonildo Pieropan), farsi capaci di lunga e complessa vita? Tali vini si sono fatti grandi, presso alcuni produttori, grazie ai corretti propositi ed alla tecnologia elitaria, finalmente adottati. Le mie prediche – dal 1956, pensa te – per tanti anni contrastate con rabbia e pervicacia, per tanti anni parse inutili, hanno portato a risultati che neppure io avrei osato sperare.
Ho il proposito di disegnare, un giorno o l’altro, per ogni grande vino, il diagramma nel tempo. Salvo eccezioni rarissime, dovrò tracciare un accrescimento, a volte rapido, soprattutto per i bianchi, a volte lentissimo, soprattutto per i rossi, sino a giungere all’apice che non sarà mai una punta bensì una lunga linea orizzontale; per scendere poi a volte rapido, a volte lentissimo. Si evidenzierà soprattutto che per un vino grande ed autorevole, sia bianco sia rosso, l’ascesa e la discesa sono lente, lunghissima la permanenza al livello di valore eccelso.
Proprio per ciò, sono minori, nel passare degli anni, le reali varianti della possibilità di descrizione dei vini davvero grandi; i fondamentali, ripeto, quando non restano intatti, mutano di poco, per nuovi acquisizioni prima, e poi, con l’aumento degli anni e l’inizio della parabola discendente, per minimi e sempre armonici cedimenti.