Per Arianna, mensile, Veronelli scrivere anni, dal 1970 al 1971. Titolo delle rubrica: Un vino al mese.
Una pagina intera con indicazioni teoriche, pratiche e, riferite alla zona di produzione del vino, anche turistiche.
Mi propongo di avvicinare le lettrici, e i lettori di Arianna al vino, o meglio: ad una migliore conoscenza del vino. Compare, ogni giorno, sulle tavole degli italiani: ne abbiamo familiare consuetudine, da secoli; e non lo conosciamo o conosciamo male. Sarà capitato anche a voi: troppe volte, ospiti d’amici, clienti in trattoria o ristorante, ci imbattiamo in vini male serviti – a temperatura errata, con cibi non adatti – o addirittura ammalati, per incuria, per… incauto acquisto.
Il vino – ce lo confermano i medici – bevuto bene è elemento di sanità, equilibrio e di gioia. Impariamo a sceglierlo (casomai nel luogo stesso di produzione, durante la gita di fine settimana), conservarlo e berlo.
La rassegna dei vini italiani inizia con il Verdicchio dei Castelli di Jesi. Questa scelta non è senza motivo: pochi altri vini sono stati più traditi, hanno avuto maggiore danno dalla fama, da una irrazionale richiesta e dallo sfruttamento “industriale”.
Carta d’identità. Il Verdicchio migliore ha i seguenti requisiti. Colore: bianco paglierino più o meno tenue secondo zona e vendemmia, sovente con rapidi riflessi verdognoli; brillante. Profumo: vinoso con molto garbo, fresco e continuo. Sapore: secco senz’asperità, anche fresco e vinoso su fondo sottilmente amarognolo; nerbo e stoffa leggeri; armonico.
Il vino dovrebbe avere nascita dall’uva del vitigno omonimo, verdicchio. Ma insufficiente a coprire il fabbisogno, si è dato spazio nella produzione di questo vino ad altre uve, trebbiano e malvasia in particolare. Il recente – 11 agosto 1968 – decreto di riconoscimento che concede la cosiddetta denominazione di origine controllata (in parole povere: certificato di buona condotta), consente sino al 1975, a titolo transitorio, uvaggi (miscele d’uva) composti da verdicchio, trebbiano, malvasia e altre uve, purché l’uva verdicchio rappresenti non meno del 60% del totale e le uve senza nome non superino il 10%. Con la vendemmia 1976 il vino deve essere ottenuto dalle uve del vitigno verdicchio (si tratta di un deve “all’italiana”; subito dopo il disciplinare di produzione aggiunge: «È tuttavia consentito l’impiego delle uve provenienti dai vitigni trebbiano toscano e malvasia toscana in misura non superiore ai 20/100 del totale delle viti»).
L’esempio francese. L’uvaggio diminuisce la “personalità” del vino Verdicchio; speriamo che qualche vignaiuolo, capace d’imbottigliare e desideroso di imporsi sul piano della qualità – seguendo l’esempio dei produttori di Champagne che hanno lanciato i blanc de blancs, ossia Champagne vinificati con sole uve bianche (di più: della sola Côte Blanche, a sud-est di Epernay) – ci offra entro breve tempo Verdicchio di sole uve del vitigno verdicchio. Solo allora darà il meglio del suo profumo (basta un nulla per farlo svanire) e del suo corpo (cedevole, non sopporta violenza). La resa consentita dal disciplinare di produzione per ettaro è di 105 ettolitri, una cifra mostruosamente alta, se si tiene conto che in Francia va da dai 22 ettolitri del Quarts-de-Chaume ai 50 dei Beaujolais ordinaires. A rese troppo elevate si può giungere soltanto senza fare una adeguata selezione delle uve, e quindi a danno della qualità. Il buon vignaiolo, insomma, è costretto per ragioni di concorrenza a “forzare” la produzione sia nei vigneti sia in cantina. Con una saggia riduzione delle uve nei vigneti, con una attenta cernita dopo la vendemmia, si otterrebbero vini meno “spogliati” e più sani.
Modo di servirlo. La bottiglia di Verdicchio va stappata al momento di servirla. Il vino deve avere pressappoco la temperatura di 10° C (ricordare che in tavola, la temperatura ambiente aumenta di due gradi in circa quindici minuti).
Zona di produzione. La zona di produzione del Verdicchio è assai vasta. Tenuto conto che io escludo il comune di Jesi e che con la parola “cru” vengono designate le collocazioni geografiche migliori, consiglio l’acquisto dai vignaioli di: Morro d’Alba, Serra San Marcello (cru l’Acquasanta), Belvedere Ostrense (cru la Pieve), Montecarotto (cru San Lorenzo), Poggio San Marcello (cru Sant’Angiolo), Arcevia (cru Colle Aprico, Magnadorsa, Colle di Corte e Castiglioni), Mergo, Rosora (cru Angeli), Castelplanio (cru Pantiere), Monte Roberto (gru Scisciano), Cupramontana (cru Poggio Cupro), San Paolo di Jesi e Staffolo. Tutti questi comuni sono in provincia di Ancona. In provincia di Macerata: il solo Apiro con i cru Sant’Isidoro, Colognola e Valcareccie. Qualche nome di vignaiolo piccolo e – sino ad oggi, Dio lo conservi e lo rimeriti – onesto? Giovanni Vici, Francesco Clementi, Elda Gallo, Giuseppe Sforza e Raffaele Turci in Apiro; i fratelli Grizi e i fratelli Luminari in Rosora.
Ideale per questi piatti. Il Verdicchio non ama violenze. Predilige gli antipasti magri, pur che non conditi con aceto o con succo di limone, e le pastasciutte e i risotti con salse a base di pesce. Tra i pesci cotti su vivo fuoco o in umido, preferisce – per sua cedevolezza – i secondi.