Si discute molto – scrivo gli ultimi di novembre – di questi giorni sull’eutanasia.
Eutanasia, nell’esatto senso «illustrato» nel Battaglia: morte bella, serena, accettata
tranquillamente, senza ribellione, come compimento naturale della vita terrena.
Senza ribellione. Ogni cura – applicata a chi è cosciente di essere giunto alla
propria fine intellettuale, e peggio ancora se ciò è provocato o accelerato dalla
sofferenza – ogni cura, ripeto, è vera e propria tortura cui, se sono in grado di
intendere e di volere, ho il diritto di sottrarmi. Se non sono in grado di intendere
e di volere è dovere proprio di chi mi ha in cura – un dovere etico d’ineguagliabile
pregnanza – sospendere una vita non più vita, da che è divenuta solo animale e
quindi per chi è stato uomo (donna, amica mia paritaria) non pregevole.