Si discute molto – scrivo gli ultimi di novembre – di questi giorni sull’eutanasia.
Eutanasia, nell’esatto senso «illustrato» nel Battaglia: “morte bella, serena, accettata tranquillamente, senza ribellione, come compimento naturale della vita terrena. Senza ribellione”.
Ogni cura – applicata a chi è cosciente di essere giunto alla propria fine intellettuale, e peggio ancora se ciò è provocato o accelerato dalla sofferenza – ogni cura, ripeto, è vera e propria tortura cui, se sono in grado di intendere e di volere, ho il diritto di sottrarmi.
Se non sono in grado di intendere e di volere è dovere proprio di chi mi ha in cura – un dovere etico d’ineguagliabile pregnanza – sospendere una vita non più vita, da che è divenuta solo animale e quindi per chi è stato uomo (donna, amica mia paritaria) non pregevole.
A me molto ha emozionato sentire le parole Raittivù di Indro Montanelli.
Il diritto dell’uomo (donna) affermato al Parlamento di Olanda alla scelta della propria morte è un passo avanti, immenso, della civiltà. Diritto alla propria morte esercitato in qualsiasi momento, e senza il condizionamento della sofferenza e con la sicurezza di una fine vicina per motivi di serenità ideale, proprio come compimento naturale della vita terrena…
… Non s’è mai parlato tanto di vita.
Ciascuno di noi – dal più colto all’incolto, con scelta di campo sincretista o agnostica, religioso o ateo – ha una sua definizione della vita.
Pressoché del tutto incolto, per me vivere è godere appieno delle capacità – fisiche e mentali – di cui sono dotato.
Doti che ho (avevo) nell’atto del nascere e ho sviluppato attraverso i fatti e gli ammaestramenti.
Non so dirti qual è stato il momento massimo del mio essere, quello in cui la mia vita è stata più piena e dichiarata.
So dirti che, da qualche anno a causa di malanni fisici (in preponderanza la perdita giorno via giorno della capacità visiva) sono meno vivo. Iniziata la discesa verso quell’affascinante conclusione detta morte (affascinante per la totale fisicità).
Un percorso – mi auguro – ancora lunghissimo, in stretta dipendenza delle mie facoltà di essere responsabile.
Per renderla terra a terra, ma del tutto comprensibile, io mi considererò morto, proprio come Indro Montanelli, nel momento in cui non potrò stare solo in un gabinetto. Come lui chiederò, esigerò l’eutanasia.
È una esemplificazione cruda, ma rende bene il cammino parallelo tra l’ideazione e la fisicità.
Vivere e far vivere senza dignità è la pretesa – assurda e «satanica» – di estendere la morte.
Luigi Veronelli